Tra i numerosi problemi legati alla contrattualistica internazionale, l’interpretazione appare come uno dei più complessi, giacché l’attività ermeneutica è prodromica all’individuazione del significato del testo e degli effetti conformi all’intenzione delle parti.
L’analisi sulla quale...
Tra i numerosi problemi legati alla contrattualistica internazionale, l’interpretazione appare come uno dei più complessi, giacché l’attività ermeneutica è prodromica all’individuazione del significato del testo e degli effetti conformi all’intenzione delle parti.
L’analisi sulla quale si concentra questo lavoro, che mette a petto ordinamento italiano ed inglese, mira comprendere se sia possibile utilizzare un principio generale come la buona fede, sviluppatosi in contesti di civil law, nell’interpretazione del contratto internazionale, funzionalmente e nativamente legato all’ambiente di common law. Il problema dell’applicabilità dell’interpretazione di buona fede al contratto internazionale deriva dal fatto che il giurista inglese predilige i criteri di certezza e prevedibilità del traffico giuridico e, dunque, un’analisi del contratto che si discosti il meno possibile dal dato letterale, mal tollerando principi generali ritenuti vaghi e perciò, perniciosi.
Si tratta quindi di capire se dall’endiadi buona fede possano essere ricavati contenuti comuni ai due sistemi giuridici e “regole operazionali” applicabili in modo efficiente all’interpretazione del contratto internazionale, anche in virtù del rilievo dato a tale canone ermeneutico dai nuovi Principi UNIDROIT. Si suggerisce un uso del canone della buona fede come strumento di risk assessment delle posizioni contrattuali sempre più esposte, in mercati assai fluidi, a variazioni impreviste e tuttavia alla ricerca di soluzioni orientate, quanto più possibile, ad un sinallagma ragionevole e dagli esiti prevedibili.