La scelta del d.lgs. n. 28 del 2015 di includere la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto nel catalogo dei presupposti dell’archiviazione coniuga una persuasiva matrice culturale – ispirata alla proporzionalità tra repressione penale ed effettivo disvalore del fatto – con potenzialità deflative determinanti per la sopravvivenza del nostro sistema giudiziario, che versa da tempo in cronico affanno.
La commistione tra la forma, apparentemente liberatoria, del provvedimento e il contenuto – che implica la responsabilità penale dell’indagato, accertata sulla base degli atti di indagine – rende l’archiviazione fondata sulla particolare tenuità un “ossimoro processuale” di delicata regolamentazione.
La circostanza che il legislatore le abbia dedicato un’attenzione specifica, apprestando uno speciale itinerario procedurale, ne rivela l’apprezzabile consapevolezza di avere a che fare con un’archiviazione sui generis. Molto più problematico, invece, affermare che a tale consapevolezza si accompagni un rigoroso governo delle peculiarità della materia.
L’attuale sequenza archiviativa non sembra pienamente rispettosa delle coordinate costituzionali né coerente con le scelte epistemologiche qualificanti del nostro assetto processuale, imponendo lo sforzo legislativo di rimeditarne la disciplina, senza introdurre deleterie diseconomie.
Nonostante la complessità tecnica dell’operazione, si deve rifuggire dalla tentazione di sottrarsi a tale impegno rinunciando all’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto. L’ordinamento che preferisse una simile scorciatoia si dimostrerebbe non solo culturalmente regressivo ma anche privo di realismo: tornando a imporre di perseguire qualsiasi fatto penalmente rilevante, senza più autorizzare distinzioni legate alla sua concreta offensività, risulterebbe ancora meno efficiente e, quindi, ancora meno credibile.