Chiuso il processo di cognizione, si apre la fase riservata all’esecuzione della sentenza. Una fase delicata e complessa, dagli epiloghi tutt'altro che scontati.Occorre verificare che la decisione sia effettivamente irrevocabile e che il titolo esecutivo non necessiti di essere corretto, sostituit...
Chiuso il processo di cognizione, si apre la fase riservata all’esecuzione della sentenza. Una fase delicata e complessa, dagli epiloghi tutt'altro che scontati.
Occorre verificare che la decisione sia effettivamente irrevocabile e che il titolo esecutivo non necessiti di essere corretto, sostituito od anche revocato.
Flessibilità e cedevolezza della cosa giudicata, un tempo vissute come intollerabili aggressioni all’autorità della giurisdizione, sono invece funzionali alla piena realizzazione di una duplice, irrinunciabile finalità della giustizia penale: che la decisione risulti non solo formalmente, ma sostanzialmente giusta, e che, a sua volta, sia giusta la pena inflitta con la condanna.
Per ottenere il primo risultato servono – in aggiunta ai protocolli di ricerca e ai controlli predisposti dal codice di rito per assicurare l’affidabilità dell’operazione euristica - rimedi manipolativi del giudicato in fase esecutiva e mezzi di impugnazione straordinari. Al raggiungimento del secondo obiettivo – che non può essere eluso senza violare l’art. 27 comma 3 Cost. – sono funzionali le attività volte, in executivis, ad attenuare il rigore del trattamento punitivo previsto dalla legge e sancito dalla sentenza.
Meglio sarebbe, in prospettiva, che qui si intervenisse a monte: il legislatore penale dovrebbe trovare finalmente il coraggio di sostituire l’obsoleto armamentario sanzionatorio del codice Rocco (ancora concentrato solo sul carcere, per sua natura desocializzante e criminogeno), ridefinendo qualità e quantità delle pene edittali, per consentire direttamente al giudice della cognizione l’applicazione di una pena proporzionata, equa e, non da ultimo, certa. Lasciare alla procedura penale esecutiva questo compito di supplenza – tanto necessario, oggi, quanto socialmente malinteso - non giova alla coerenza dell’ordinamento e rischia di mettere in crisi, ad un tempo, legalità e credibilità del sistema.